giovedì 24 marzo 2011

Cave canem, cave vitam

22/03/2011, 18:26


Da pochi minuti, alle 18:16, ho ricevuto la chiamata di mamma dicendo che ti avevano addormentato e che, quindi, a breve la tua vita si sarebbe conclusa.

Lontano da me. Io, lontano da te.

Avrei voluto esser li con te, in questo momento, per rendere onore alla tua incommensurata fedeltà, nonostante siano passati da pochissimo 10 anni ... nonostante il solo 25% della tua vita trascorsa insieme a me.

Mi fa strano pensare che, dopo tutti gli sforzi fatti perchè tu sopravvivessi all’abbandono ed alla malattia, quando eri appena un cucciolo di due mesi, l’orribile malattia ti abbia portato via senza farsi sentire, nel giro di pochi giorni.

Mentre tu, addormentato, stai per ricevere l’iniezione letale, io qui, sulla mia poltrona, penso a te, piango e faccio l’unica cosa che da tre anni a questa parte mi procura un pò di sollievo: scrivere.

Scrivo di te, adesso.

Sarà per senso di colpa, perchè magari non sono stato sempre un padrone fedele, perchè ti coccolavo per obbligo quando cercavi insistentemente le carezze piuttosto che per piacere, o perchè ultimamente interessato al nuovo “giocattolo” Micky piuttosto che a te, mostrandoti geloso e seccato.

Eppure, nonostante ciò, le tue feste si sprecavano: guaiti, salti altissimi, corse, pianti per decine di minuti ogni volta che mi vedevi ritornare a casa dopo mesi di lontananza; ad ogni mio spostamento in casa, tu eri sempre la mia ombra. Strano essere, l’uomo, strano essere, io: lezioni di infedeltà, di mancanze e di opportunità perse ne ho seguite a iosa nella mia vita ma non ho imparato a sufficienza la lezione, quella più importante: amare veramente ed incondizionatamente, come hai fatto tu, per sempre.

Mi è capitato una sola volta nella vita con una persona. Finita malissimo, ho reagito altrettanto malissimo.

L’ho fatto con te, appena trovatoti: pesavi un’etto forse, senza pelo, completamente solo e perso. Franco ti trovò sotto il suo dipartimento in università e ti portò nel sottoscala della palazzina maschile del Matrangola, nella speranza che un’anima buona ti trovasse e si prendesse cura di te. Per puro caso, ti trovai io ... o tu trovasti me. Da quel momento, ti sei affidato completamente a me, facendoti curare come meglio potevo, con tutti gli sforzi ed i sacrifici che potevo permettermi.

Nessuno scommetteva sulla tua sopravvivenza, nessuno. Tutti ti allontanavano perchè eri rognoso.

Fu la tua vittoria, la nostra vittoria più importante. Il pelo ricrebbe folto, lucido e liscio. Bellissimo. Da allora, gli altri cominciarono a guardarti e a considerarti, prendendosi cura di te, cibandoti a mia insaputa durante la notte e tu, per accettazione, cominciasti a dormire sul pianerottolo del terzo piano dove io vivevo, creandomi problemi con il portiere un giorno si e l’altro pure!

Divenisti anche la mascotte della squadra di calcetto dell’appartamento, ricordi? Tutti ti cercavano! Ti chiamavano Rex.

I nostri giochi erano semplici: pigne e mollette, ciò che il cortile del Matrangola ci offriva!!! Ma a te bastavano, ed anche a me. Il tuo richiamo erano gli schiocchi delle mie dita, cosa che hai mantenuto per tutta la vita, anche l’ultima volta che ci siamo visti a Natale, con i nipotini e tutta la famiglia che si divertiva e rideva per questo strano modo di richiamarti in modo distintivo. Tu, al sentire gli schiocchi, partivi di corsa verso di me, scodinzolando. Sempre.

Ti portai a casa nostra un fine settimana. Impossibile dimenticare il viaggio dallo studentato fino all’università, con il passaggio datoci da Silvio, e da qui in autobus fino a casa, con te nel cartone di risme di carta, appollaiato su un panno mentre smangiucchiavi l’involucro di cartone fino a ingoiarlo e rimetterlo tutto!!!

Dopo, il rientro a Cosenza, perchè a casa non potevi restare ... ma solo per poco; qualche altra settimana presso lo studentato e, dunque, l’ingresso definitivo in casa, probabilmente per aver creato dispiacere a mamma dopo averti scattato decine e decine di fotografie prima della mia ripartenza per l’università. Dopo tutto, erano stati enormi gli sforzi per rimetterti in vita e mi piangeva il cuore vederti dare a qualcun altro che magari ti avrebbe trattato peggio.

Da allora, ci siamo visti solo le due estati successive, durante le vacanze di Natale e di Pasqua. Siam stati insieme per un anno intero dopo la mia laurea e, da quando lasciai definitivamente casa, nell’agosto 2004, soltanto pochi mesi l’anno siamo stati insieme e ci siamo visti.

Tu però, non sei mai cambiato, sei sempre stato lo stesso cane festoso, gioioso ed accogliente ad ogni mio ritorno. Io ero contento di rivederti i primi giorni, felice di poter stare di nuovo inseme a te e desideroso di portarti a fare passeggiate; poi, mi sentivo stufo e seccato dalle tue insistenti richieste di coccole, alle quali comunque cedevo per disperazione.

Non dimentico quando, alla notte, guardando programmi in tv fino a tardi, tu dalla camera da letto partivi e ti posizionavi dietro la porta chiusa del salotto. Un pianto leggero, giusto per farti sentire, ed io ti aprivo la porta, per farti prendere posto sul divano, vicino a me, per dormire mentre ti accarezzavo o ti appoggiavo semplicemente una mano sul corpo o sulle zampette, finchè non andavamo a dormire nei nostri letti.

Questo non siamo riusciti a fare spessissimo: tu dormire sul mio letto per lunghi periodi. Restavi sul mio letto al massimo una decina di minuti, poi andavi via.

Pane, la tua passione, come la mia. Quanto ne hai mangiato! Preferendolo a qualsiasi croccantino o carne bollita che mamma ti preparava! Quanto te ne abbiamo dato per il semplice fatto di tenerti buono e silenzioso, facendoti smettere di sbuffare, con il tuo solito modo di attirare l’attenzione!

Adesso, alle 19:02, ricevo il messaggio in cui c’è scritto che sei ritornato a casa, nel tuo ultimo viaggio in auto. Questa volta, non per rientrare dalla quotidiana passeggiata lungo il mare ma per trovare riposo per sempre, sconfitto da una malattia a cui tu non ti sei opposto in alcun modo, senza mostrare il minimo segno di dolore o di sofferenza, senza rumori, affrontando da solo (senza di me) la morte.

Bisogna farsi sentire, Robin. Non bisogna restare soli. Tale cane, tale padrone, si dice. Perciò, Robin, spero che questo ulteriore tassello nella mia vita possa farmi pienamente comprendere e vivere al meglio ciò che più conta nella vita: VIVERE.

Vivere ogni forma d’ esperienza, senza limiti, senza timori, senza paure, senza colpevolizzazioni e con quanto più ottimismo si ha a disposizione. Perchè ora ci siamo ... dopo ... L’ultima volta che ti ho visto è stato oggi pomeriggio, tramite internet, perchè ho voluto ardentemente vederti prima della tua fine. Erano le 15:30, tu eri disteso vicino al termosifone del salotto, sotto il tavolo ... a mala pena hai alzato per un secondo la testa per capire cosa stava accadendo, giusto per farti vedere ancora vivo, come nella fotografia spedita sul cellulare poco prima dei tuoi ultimi respiri di vita ... poi non ci sei stato più e sei divenuto passato in un sol colpo. Drasticamente passato.

Ora ci siamo, dopo chi lo sa: per questo motivo, bisogna vivere senza mancanze e senza scocciature, cosa in cui sono un campione del mondo.

Cercando nel mio archio, ho trovato solo quest’unica foto di te, da solo, bellissimo: mi sono sorpreso per questo, credevo di averne altre di te scattate nello stesso periodo dell’estate scorsa; invece, mi sono solo rimaste le primissime foto di te appena entrato in casa e quelle subito dopo la mia laurea, nel lontano 2003.

Anche a te dirò la stessa cosa che non ho mai detto a papà: ti voglio bene, mio fedelissimo cane.

Arrivederci.

Due schiocchi di dita, il nostro richiamo

22/03/2011, 19:32